Video selezioni, aperitivo, mostra.

venerdì 2 aprile 2010

Playlist a cura di Viana Conti

18 marzo 2010
ore 7.30 pm

Jeff Talman
(1954 Greensburg, Pennsylvania), video Mirror of the Moon/Specchio della Luna, 2008, durata 20’.
Artista e musicologo statunitense nato in Pennsylvania, Talman qui presenta un video strutturato sull’installazione video_sonoro_interattiva ideata per il Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Genova, nell’ambito dell’Edizione NIME (New Interfaces Musical Expression) 8 – 5/8 giugno 2008.
La sua metodologia operativa si esplica attraverso un work in progress che inizia con la scelta di uno spazio in condizioni di silenzio, se interno, o naturali, se esterno, quindi passa alla registrazione della risonanza delle frequenze, inerenti al luogo o alla materia della struttura che prende in esame, applicandovi un programma di analisi di sonogrammi ideato dal ricercatore svizzero Martin Hairer. È su questo versante che si colloca la videoinstallazione sonora Mirror of the Moon, visivamente strutturata su ventitre riprese dello specchio di mare antistante Villa Croce, poi spettrograficamente proiettate su un supporto cristallino bianco, di forma discoidale, dello stesso marmo del pavimento della sala in cui si mette in opera l’installazione. Successivamente, attraverso l’uso di filtri digitali, si ottengono le stesse frequenze dal suono del mare. Tali frequenze diventano il contenuto sonoro dell’installazione stessa, la voce delle onde del mare, del cui canto risuona l’intero spazio. In tal modo Talman restituisce al luogo la sua dimensione acustica, sensorialmente inudibile se non enfatizzata, arricchita inoltre del suono delle onde. Questa azione di sound_video_light_design trova e amplifica i punti di intersezione di onde sonore esterne e interne, di onde luminose e gravitazionali, espandendo il potenziale sensorialmente percettivo e spazialmente cognitivo dell’uomo. Immaginando, per fare un parallelo, la memoria come uno spazio vuoto da arredare di ricordi, con la reificazione della voce di un luogo Jeff Talman restituisce al contenitore la forma acustica del suo contenuto, ridefinendone così la proprietà e l’essenza estetica. (Viana Conti)

Alexander Hahn
(1954, Rapperswil, Svizzera, vive tra Zurigo e New York), video Luminous Point, Guided Tour, 2006, durata 11’58”, Festival della Scienza, su selezione della Fondazione Bogliasco, con la Pro Helvetia - Fondazione svizzera per la Cultura e il Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, 2008, Genova
In Luminous Point – dichiara l’artista - emergono trasformazioni continue di immagini, a partire dalla struttura dei mezzi utilizzati, ma anche da uno stato della materia a un altro, dall’evidenza della rappresentazione al simbolo, fino al rimando psico-sensoriale, attivando così una lettura trasversale dei movimenti di ripresa della videocamera attraverso la dissolvenza dei passaggi sui punti di sutura…Le fonti ora sono sintetiche ora in presa diretta con la realtà. Ricorro anche a un elaboratore di algoritmi per grigliare spazio e visione.
Il linguaggio digitale di Alexander Hahn esprime il punto di sutura tra la ricerca artistica e quella scientifica, azzardando, attraverso spaesamenti temporali e spaziali, ipotesi, apparentemente fantascientifiche, che al contrario non cessano di innervare i loro terminali nel tessuto della mente, della psiche e del sistema neuronale dell’uomo, estendendone le capacità cognitive. Elaboratore attivo di dati e immagini, che l’ubiquità spaziale e temporale delle Reti gli propone senza soluzione di continuità, Hahn raccoglie la sfida di confrontare i termini di rappresentazione oggettiva del reale con quelli di una rappresentazione suggestiva del virtuale. Ibridando radicalmente paesaggi, figure, eventi, colti in tempo reale, con immagini, suoni, film, estratti dal flusso dei silenziosi canali elettronici, Hahn perviene paradossalmente alla creazione di un linguaggio di pura innovazione estetica, linguistica ed epistemologica. Nell’installazione interattiva Luminous Point la sfida percettiva verso lo spettatore comincia già a partire dalle prescrizioni impartite professionalmente dall’artista sulle dimensioni ottimali dello schermo e della sala in cui avrà luogo la proiezione virtuale, pur sapendo che, l’avvolgente tour all’interno dell’appartamento di Hahn in Ludlow Street a New York, è pura simulazione, accadendo nello spazio immateriale e interattivo di un computer, scorrendo lungo filamenti di interconnessione digitale. Questo è sufficiente per dire che quel luogo non esiste? Certamente no. Esiste l’appartamento reale come ne esiste la simulazione virtuale: si tratta di due diverse realtà che si interfacciano. A partire da uno spioncino, in una porta chiusa, si inizia la perlustrazione interattiva, invitati ad entrare in casa per scoprire, tramite un telecomando virtuale, soffitti affrescati, architetture firmate, arredi d’epoca, lo storico dirigibile Hindenburg, precipitato nel 1937 nella catastrofe di Lake Hurst, ma, all’improvviso, anche un lavandino bianco infestato da mosche, un ventilatore immobile, tra crepitìi, scricchiolìi, rumori sinistri di una porta che si chiude, di un interruttore che accende la luce, di un giornale sfogliato durante un viaggio in aeroplano. Presenze incongrue come tracce organiche di animali o insetti avvisano che i virus della vita reale hanno già fatto razza con i virus, non meno insidiosi, del mondo digitale. (Viana Conti)

Mauro Ghiglione
(1959, Genova), Low Definition, durata 10’52”, video in loop
Si tratta di una videoproiezione animata di immagini che alternano i volti di trenta figure femminili a trenta date di calendario, scritte in rosso, che scandiscono fotograficamente il giorno più doloroso della propria vita. La richiesta fatta dall’artista ad ogni donna contattata, nella fase progettuale, non verteva sulla causa e sulla motivazione della ferita emotiva, ma unicamente sull’identificazione di giorno, mese, anno. I ritratti della sofferenza, che sfilano sullo schermo, non appartengono ai soggetti interpellati, ma a fotografie di fotografie reperite, nel tempo, sia dall’artista che dalle partecipanti all’opera. Lo scollamento tra volto e numeri drammatizza, nell’ipotesi dell’autore, l’inconciliabilità tra la vulnerabilità umana e la lapidarietà del codice numerico. Nel rapporto tra l’artista e l’alterità, l’individuo e la socialità, l’autenticità e le convenzioni, si formalizza l’interrogativo sulle radici del dolore e sulla permeabilità al sentire in un’era, tanto profondamente segnata dalla robotizzazione tecnologica, da connotarsi come post-human. Nella sua riflessione su una condizione del sentire, come rituale del già sentito, come impersonale ripetizione di un copione, il culto dilagante dell'immagine si delinea come una patologia collettiva, sempre più riferita all’apparenza e sempre meno al valore antropologico. Elemento fondamentale del video e del lavoro di Mauro Ghiglione è la bassa definizione delle immagini, metafora della bassa definizione dei sentimenti e della capacità percettiva del soggetto appartenente a una società dello spettacolo, in cui la realtà si trasforma incessantemente nel suo simulacro. Come il ritratto fotografico rappresenta, anche letteralmente, il ritrarsi del soggetto nell’immagine, rinviando alla sua assenza nel reale, così l’opera di questo artista non cessa di dare immagine e volume a figure emorragiche dell’identità e del sentimento, esasperandone la frizione con il reale. La frequentazione, cercata o indotta, di un’immagine luttuosa può produrre assuefazione, ma anche inadeguatezza al dolore – afferma l’artista - sottraendogli, nel tempo, autenticità. (Viana Conti)

Mauro Ghiglione
(1959, Genova), Fog, durata 14’13”, videoproiezione.
La nebbia che dà il titolo al video, e che nel suo scorrimento non cessa di ombreggiare il volto del soggetto, è una metafora visiva dello sconfinamento del sogno nel reale. Reale qui rappresentato da solidi anamorfici ambigui, tanto da rinviare agli spazi impraticabili di Escher, tendenti a sdoppiarsi e triplicarsi, confrontando provocatoriamente i loro spigoli taglienti con la vulnerabile fragilità dell’essere. In una civiltà dell’immagine in cui l’identità ha perduto il suo valore sostanziale per divenire simulacro di superficie, il video formalizza la percezione che tra l’intensità emotiva della figura umana e l’asetticità dell’astrazione geometrica, non ci sia possibilità di interazione e scambio. Alla luce di questo radicale atteggiamento di rifiuto del mondo illusorio delle immagini per un recupero profondo di un sentire attraverso il cuore, nostro, vostro, suo, il ricorrente gesto di copertura del volto con le mani del protagonista, alter ego dell’artista, esprime la volontà di non adeguarsi alla bassa definizione dei parametri e degli stereotipi correnti, per privilegiare auspicabilmente un sentire interiore, individuale e collettivo. Il palesarsi di un ritratto, a volte in una deformazione baconiana, altre nel suo doppio, può anche ricondurre l’osservatore, associativamente, al HYPERLINK "http://it.wikipedia.org/wiki/Test_psicologico_proiettivo" \o "Test psicologico proiettivo" test psicologico proiettivo di Rorschach, finalizzato all’interpretazione, attraverso macchie d’inchiostro, della personalità di un individuo. Le immagini messe in circolo dalle reti telematiche non cesserebbero di attrarre, nella loro bidimensionalità, il volume del reale, che nel suo viaggio nel tempo e nello spazio entrerebbe nella dimensione ipercubica dell’immaginario, come si è rilevato nella recente mostra di Mauro Ghiglione con Franco Vaccari, intitolata Paso Doble, da me curata alla Galleria Michela Rizzo a Venezia. Prende evidenza, nella riflessione dell’artista, l’attrazione fatale tra i dispositivi umani del desiderio e il cinismo inumano del sistema consumistico occidentale. Sul terreno del pensare, del sentire, del comunicare, dell’attendere, Ghiglione trova consonanze con l’immaginario teatrale e letterario di Beckett, Borges, Camus, Joyce, Dick. Nel suo work in progress i dispositivi del desiderio, condizionati e interiorizzati, anche a livello subliminale, da norme sociali e da comportamenti diffusi, avrebbero perduto i loro colori vivi entrando in una zona grigia. (Viana Conti)

Roberto Doati (Genova, 1953) Le stelle suggeriscono nuove opportunità, durata 5’10”. Terzo testo per video e live electronics tratto da Sindrome scamosciata (2008-2009), composizione della durata complessiva di 21’24”. In questa serie, composta da quattro videocomposizioni intitolate Il transito ostile della luna, 5’10”, Potrete incappare in un contrattempo, 5’10”, Le stelle suggeriscono nuove opportunità, durata 5’10”, Vivrete una settimana all’insegna della stabilità, 5’54”, l’autore ha elaborato il materiale sonoro e visivo del film di Sidney Furie IPCRESS, acronimo di Induction of Psycho-neuroses by Conditioned Reflex under strESS. Ogni capitolo del libro di spionaggio di Len Deighton, da cui viene tratto il film, è intestato da una citazione astrologica, perciò il titolo di ciascuno dei brani che costituiscono la mia serie – annota l’autore - è ricavato dal mio oroscopo per il giorno in cui comincio a lavorare su quel brano. Nella prima videocomposizione dal titolo Il transito ostile della Luna, a intermittenza, si presenta un’immagine tanto incongrua quanto seducente, percepibile a livello subliminale. Nel film, Michael Caine impersona un agente segreto al servizio del governo inglese che, immobilizzato su una sedia, viene sottoposto a un lavaggio del cervello tramite l’ascolto di musica elettronica, a un volume pernicioso, e tramite la visione di figure sintetiche. La parte visiva del mio lavoro - dichiara Doati - prende formalmente avvio da quelle figure per poi divenire uno studio sulla permanenza mentale dell’immagine ed è realizzata coprendo con un cartone nero bucato lo schermo di un televisore acceso e lasciando che l’ampia apertura dell’obiettivo e i rapidi movimenti di camera nel buio registrino delle scie luminose. Dell’opera non esiste partitura scritta per il fatto che la serie viene eseguita dal vivo, cioè live electronics, e pertanto i sincroni o non sincroni con le immagini derivano in gran parte da una pratica improvvisativa. Il complesso dei sintomi che, metaforicamente, concorrono a caratterizzare il quadro visivo della sindrome, si avvale di incursioni a pioggia di tracce cromatiche, di elementi verticali, orizzontali, trasversali, coinvolti in moti rotatori, da sensazioni di perdita di orizzonte, stabilità, centralità, accompagnati acusticamente da gorgoglii, vibrati, frullati, staccati, effetti siderali e magnetici di segnali in lontananza. Roberto Doati esordisce, diciottenne, nell’improvvisazione libera, per poi passare al taglio e montaggio del nastro magnetico. Dopo aver frequentato un corso di Storia dell’Arte Contemporanea tenuto da Germano Celant diventa, dal 1974 al 1980, l’assistente di Ida Gianelli alla Samangallery, riferimento ineludibile del panorama internazionale di arti visive nella Genova degli anni Settanta. Si interessa altresì alla Gestalt, la scuola psicologica, sviluppatasi in Germania tra gli anni Dieci e gli anni Trenta, che maggiormente si impegna sul terreno della conoscenza dei dispositivi di percezione delle forme visive e uditive e delle strutture spaziali e temporali. Dedito alla sperimentazione dei linguaggi elettroacustici, sulla base di simmetrie, ripetizioni, velocità, direzioni, per poter anche lavorare al controllo gestuale sull’elettronica da parte dell’interprete, estende la sua ricerca alle tecnologie interattive, ricorrendo a processi cognitivi e di intelligenza emotiva come parametri compositivi. Un forte legame lo stringe alla città di Venezia, a cominciare dal suo primo riconoscimento internazionale (nel 1981, selezione Opera Prima per il Teatro La Fenice), e proseguendo con le due commissioni da parte della Biennale di Venezia: L’olio con cui si condiscono le parole, per voce ed elettronica (1995), Un avatar del diavolo, teatro musicale (2005). (Doati/Conti)

Giuliano Galletta
(nato a Sanremo, 1955, vive a Genova) A Romance 1990-2009, video, 3’16”,
performer Simona Fasano, tecnico video Claudio Maccagno. Il video presenta la re-citazione di un momento espositivo del passato, del metascenario di spezzoni di un déjà vu, dando immagine a una visione retroversa dello stesso artista, rispecchiato nel doppio della modella, che ripete, nel 2009, quasi in trance, gli stessi gesti, familiari e inquietanti, da lui compiuti nella performance del 1990, a Genova, alle Arie del Tempo. Il titolo A Romance, connotato sentimentalmente, si contrappone al termine Novel, più narrativamente discorsivo. La presenza femminile non intende essere quella di un’attrice o ballerina che interpreta l’azione, ma quella attuale dell’alter ego dell’artista. Il divano consunto, la figura di coppia del pittore e la modella ritornano, come un refrain, nelle sue opere. La casa pericolosa è quella – dichiara nel sottotitolo – in cui sono ritornato. Ma in quale casa ritorna l’artista? Non certo quella che riveste lo stereotipo della dimora rassicurante, ma piuttosto la casa conflitto di tensioni e resistenze, in cui l’imprevisto è costantemente alle soglie, una casa come figura ossimorica: fatale materializzazione del perturbante. Il senso della routine della casalinghitudine, intriso di suspense, aleggia nella gestualità della performer che piega e dispiega, con ritrosia, le lenzuola, strofinandole con le mani, dopo avervi spremuto violentemente un tubetto di rosso, afferrato come un pugnale. L’elemento del sangue è un’evidente finzione, dal momento che si tratta di colore a tempera, ma non per questo, nel discorso dell’artista, meno inquietante. L’indizio delle lenzuola, non di rado presenti nelle sue videoinstallazioni, rimanda simultaneamente dal letto al lutto, dall’erotismo alla morte. Il ricorso alla canzone Amapola, indimenticabile colonna sonora del film C’era una volta in America di Sergio Leone, il cui testo iper-romantico è di Nana Mouskouri, funziona, nel contesto, come intenso, struggente, elemento straniante. Il dramma, sospeso sulla scena, accade come sottrazione di teatro, per presentarsi come situazione scenografica di oggetti concertatamente assonanti. Il suo ricorso alla fotografia, al testo, alla citazione, al video, non riveste un problema di linguaggio, ma investe la forma del documento, dell’objet trouvé, del materiale tratto indifferentemente da youtube o dalla strada. L’accento personale sottratto al linguaggio, viene conferito al montaggio, cui compete la drammatizzazione dell’elemento narrativo. È mettendosi in opera come filosofo del relitto, antropologo dell’aforisma, archeologo delle rovine domestiche, che Giuliano Galletta trova la sua modalità ideativa e creativa, non cessando, altrimenti detto, di effettuare prelievi dal caos dell’universo per riassemblarli come reperti: categoria a cui non esita di ascriversi. (Viana Conti)

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